C’è un legame tra l’ultimo disastro di Genova e i fondi europei che molte regioni, soprattutto al Sud, hanno in abbondanza ma non riescono a spendere. E’ l’aberrazione dei ricorsi al Tar da parte dell’impresa arrivata seconda in qualsiasi gara d’appalto. Da quando la crisi si è fatta più acuta soprattutto nel settore delle costruzioni e delle opere pubbliche, qualsiasi gara d’appalto ha la sua coda di ricorso al Tar e poi al Consiglio di Stato. La logica, pessima, è: “se su dieci ricorsi ne va a segno uno, sono a posto per un po’”. Questo significa che prima di far partire i lavori di un cantiere, passa qualche anno. Se a Genova questo ha prodotto l’assurdo paradosso che i soldi stanziati per sistemare il dissesto idrogeologico dopo il 2011 non sono stati ancora spesi, con una nuova alluvione e al prezzo di un’altra vita umana, per i fondi europei l’effetto è meno drammatico e dirompente nell’immediato, ma molto più ampio in termini economici. I soldi europei, infatti, devono essere spesi nel corso del periodo di programmazione che dura sette anni, più due di “tolleranza”. Le conseguenze dei ricorsi a tappeto da parte delle imprese si percepiscono alla fine del periodo di programmazione dei fondi comunitari (2007-2013 è quello che si è appena concluso ma per il quale – in base alla regola N+2 – c’è tempo fino alla fine del 2015). L’Italia deve ancora giustificare a Bruxelles spese per 5-6 miliardi secondo le ultime stime disponibili. Se non riuscirà a dimostrare di aver speso i soldi (a cui bisogna aggiungere una cifra analoga di cofinanziamento nazionale) l’Europa “brutta e cattiva” applicherà la regola del “disimpegno automatico”, cioè si terrà i soldi per riassegnarli probabilmente a paesi più virtuosi.
C’è modo di aggirare l’ostacolo Tar senza impedire il legittimo diritto dell’impresa che si sente ingiustamente penalizzata? Un’ipotesi per limitare i danni sulla gestione dei fondi europei è la costituzione di un fondo di garanzia di pochi milioni in modo che il ricorso possa andare avanti ma anche la realizzazione dell’opera in questione non si fermi. Se dal procedimento di giustizia amministrativa l’impresa ricorrente uscisse vittoriosa, otterrebbe un risarcimento da fondo; in caso contrario pagherebbe una ammenda che andrebbe a rimpinguare il fondo stesso.
La piaga dei ricorsi al Tar non è l’unico motivo per cui l’Italia è il peggior utilizzatore dei fondi europei dopo la Romania, anche se con più di 41 miliardi di euro è il secondo paese beneficiario dopo la Polonia (2014-2020). C’è prima di tutto l’inefficienza amministrativa delle regioni e dei ministeri che gestiscono i fondi Fesr, Fse e Feasr. E questo pesa almeno per un terzo se non di più nella lista delle ragioni di tanta insipienza. Perciò l’Europa, sempre “più brutta e cattiva”, ha imposto alle regioni e ai ministeri i Pra, piani di rafforzamento amministrativo, su cui devono impegnarsi in prima persona i presidenti regionali e i ministri.
Poi ci sono le cosiddette cause “esogene”, elencate da regioni e ministeri in un documento redatto al termine di un seminario di due giorni che si è svolto a fine settembre a Roma, insieme ai rappresentanti della Commissione europea. Oltre ai Tar, c’è il patto di stabilità interno che impedisce ai comuni di spendere anche se le risorse sono disponibili. E poiché i fondi Ue vanno spesi insieme a risorse nazionali, tutto si blocca. Ci sono le conferenze dei servizi, create negli anni ’90 per velocizzare le procedure per le opere pubbliche e diventate un “ulteriore fattore di rallentamento”: basta l’assenza di uno dei soggetti coinvolti e il processo decisionale si blocca e dunque se un comune o una sovrintendenza vuole porre il veto è sufficiente che non si faccia mai vedere. C’è il codice degli appalti,la cui complessità contribuisce a dilatare i tempi in modo incompatibile con quelli imposti dalla regola del disimpegno dei fondi UE; ancora, l’eccesso di livelli amministrativi – lo denunciano proprio le regioni – da superare per ottenere le autorizzazioni necessarie per le opere pubbliche; la difficoltà nell’ottenere documenti quali il Durc o il certificato antimafia indispensabili per il contratto ma con durata di pochi mesi: quindi quando la pratica è giunta all’approvazione devono essere rifatti perché quelli già presentati sono scaduti; difficili da ottenere sono anche le fidejussioni bancarie per le note difficoltà del mercato del credito; infine regole che hanno un intento condiviso, come quelle anticorruzione che impongono la rotazione dei dirigenti con poteri di spesa, sono incompatibili con la necessaria continuità di gestione che richiedono i programmi operativi settennali dei fondi europei.
Genova e l’incapacità di spendere i fondi europei sono solo due scatti di un paese completamente imballato, prigioniero di burocrati e regolamenti, strutture e storture. Un paese in cui le regole sono troppe e confuse con la conseguenza “di produrre privilegi e ingiustizie; un paese in cui il formalismo amministrativo e la giurisdizione sono diventati riti funzionali a creare nicchie in cui chi può esercita un potere di veto, per arricchirsi o anche solo per vendicarsi”. Un paese in cui la semplice soluzione di buon senso, “esplicitamente pragmatica” è, banalmente, “inconcepibile”. L’Europa, a cui chiediamo il permesso di poter fare altro debito senza sapere bene come spenderlo se non in spesa corrente. l’Europa, temo, non ci salverà.