di Maximilian Cellino e Giuseppe Chiellino
Schiacciate dal rischio-Italia, evidente in quello spread fra BTp e Bund che viaggia a ridosso dei 400 bp e che fa salire il costo della raccolta, tra l’esigenza di aumentare comunque i depositi e il nuovo assetto della tassazione sulle rendite finanziarie, le banche italiane stanno rivedendo in modo radicale le strategie di raccolta del risparmio. L’effetto è un po’ come un ritorno al passato, quando le banche si contendevano i clienti a partire dal tasso offerto sul conto corrente. Poi gli istituti tradizionali sono passati al tasso-zero, per competere sui servizi e lasciando alle banche online la battaglia dei conti deposito, sul filo dei centesimi e dei clic alla ricerca dell’offerta migliore. «Oggi tutte le principali banche italiane – spiega Andrea Lucchesi di Deloitte Consulting – stanno studiando prodotti molto simili ai conti deposito delle banche online. Il problema del costo è meno stringente dell’esigenza di mettere fieno in cascina». I cambiamenti non saranno rapidissimi, anche per dare il tempo alle reti di vendita e alla clientela di familiarizzare con nuove regole e prodotti. Ma lo switch-off è già cominciato.
Le manovre allo sportello
La conferma arriva da UniCredit, che sta mettendo a punto uno strumento «più articolato e con caratteristiche innovative» rispetto ai conti deposito sul mercato» afferma Massimo Macchitella, direttore marketing Italia per i clienti privati, «offrendo peraltro al cliente un vantaggio fiscale rispetto alle obbligazioni, sulle quali peserà anche il costo progressivo del deposito titoli». Cariparma è partita già durante l’estate con un conto deposito che, a differenza di quelli più diffusi, premia la fedeltà del risparmiatore con rendimenti crescenti di semestre in semestre, fino a due anni. È il cavallo di battaglia della filiale italiana del Credit Agricole. Ha dato «risultati tanto positivi – spiega Massimo Tripuzzi, direttore centrale retail private – che lo abbiamo esteso alle aziende, elevando l’importo massimo a 500.000 euro». Non scopre le carte, invece, Intesa Sanpaolo che sta comunque lavorando per adeguare l’offerta al nuovo assetto del mercato, senza però «focalizzarsi sul prodotto del "momento"». L’istituto per ora continua a proporre obbligazioni al 5,2% lordo a due anni, ma solo per la nuova liquidità. I rumor dicono che le novità non tarderanno. Il ritorno dei conti deposito non passa necessariamente attraverso l’innovazione: molte banche, è il caso di Credem ma anche di UniCredit, non hanno fatto altro che rispolverare prodotti che già esistevano, ma che erano destinati a una clientela facoltosa. Oggi li tirano fuori dal cassetto, li rendono più attraenti sotto il profilo dei tassi e li pubblicizzano nelle filiali trasformandoli da prodotti di nicchia a strumenti alla portata di tutti. Parliamo non solo di conti e certificati di deposito, ma anche di buoni fruttiferi.
Il duello con i bond
«I conti deposito – spiega Lucchesi – pur essendo tassati come le obbligazioni al 20%, hanno anche il vantaggio di non essere assoggettati alle norme Mifid e dunque sono più agili da gestire. Inoltre il deposito può essere personalizzato in funzione del cliente e degli importi investiti, mentre le obbligazioni hanno condizioni identiche sia per piccole somme che importi rilevanti. La stessa questione potrebbe porsi al momento dello smobilizzo». Dunque le obbligazioni sono destinate ad essere accantonate come era successo a metà degli anni ’90 ai certificati di deposito, sempre dopo una riforma fiscale? «Non credo» sostiene Macchitella. «Resteranno come prodotto più complesso per i clienti affluent, con esigenze di risparmio più sofisticate». C’è poi da considerare il problema della durata della raccolta: quella dei depositi è tipicamente a breve, mentre le obbligazioni possono raggiungere anche scadenze maggiori, andando quindi incontro alle regole di Basilea 3 che impongono una corrispondenza fra la durata del funding e quella degli impieghi (tipicamente a medio-lungo termine, si pensi ai mutui). In ogni caso, viste le attuali difficoltà che gli istituti di credito incontrano nell’approvvigionamento di denaro sarà difficile rinunciare a utilizzare entrambi i canali: «Il bond – sostiene Giovanni Viani, partner di Oliver Wyman – sarà utilizzato per la raccolta a medio-lungo termine e i depositi per quella a breve».
L’esempio di Spagna e Gb
L’irrompere dei big sulla scena comporterà un cambiamento inevitabile degli equilibri di un mercato che, almeno negli ultimi tre anni, ha visto gli istituti locali e in misura più contenuta gli operatori online guadagnare quote a scapito delle banche principali. Guardare agli altri Paesi europei, dove un fenomeno simile si è già verificato, può essere utile per capire ciò che potrà avvenire in Italia. «In Spagna e Gran Bretagna – osserva Viani – l’ingresso di grandi gruppi come Barclays e Santander e l’aumento della concorrenza sui depositi ha prodotto uno spostamento significativo di quote di mercato a danno delle banche locali». Uno scenario simile potrebbe riproporsi anche a casa nostra, dove i grandi istituti hanno capacità di spesa per la pubblicità e massa critica superiori e possono fare affidamento su economie di scala che i player locali non possono permettersi. La lotta per assicurarsi la liquidità dei clienti potrebbe spiazzare i più piccoli, anche se non è detta l’ultima parola: «Storicamente – obietta Viani – le grandi banche italiane hanno adottato politiche conservative, che mirano a mantenere la clientela più pregiata piuttosto che ad aggredire con strategie di prezzo. Inoltre c’è da considerare la riduzione dei margini di interesse che può derivare dall’offrire tassi più elevati alla clientela». Per UniCredit e soci, insomma, c’è il rischio di bruciare molte risorse in una battaglia che potrebbe alla fine non spostare quote di mercato significative.
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