Industria tra declinismo e trasformazione. Le leve per creare lavoro

L’Italia non è la zavorra dell’Eurozona. Semmai è la debolezza dell’Unione economica e monetaria una delle cause della lentezza della ripresa dell’economia nazionale. Certo, non si può dire che la locomotiva d’Europa si sia trasferita al di qua delle Alpi, anche perché i “freni” rimangono pigiati e “la crisi e il deterioramento della classe dirigente hanno fatto sì che le capacità imprenditoriali di cui il paese dispone non siano quelle che protano ai grandi progetti”. Però il “declinismo” con cui molti leggono le cifre e tendenze della nostra economia non sembra giustificato. Fulvio Coltorti, responsabile dell’Ufficio studi di Mediobanca MBRES, ha presentato, alla riunione annuale della Società italiana degli economisti all’Università Roma Tre, uno “quadro di riferimento” dell’industria italiana “tra declino e trasformazione”. Coltorti ritiene “verosimile che l’industria italiana e i nostri sistemi locali, pur con dinamiche eterogenee, abbiano le capacità di far fronte” alla nuova selezione di mercati e di prodotti imposta dalla procedere della globalizzazione. Un’analisi “spassionata” delle statistiche, afferma lo studio, fa emergere “una deformazione delle nostre performance effettive”, mentre il tessuto imprenditoriale è in profonda trasformazione e “al declino delle grandi aziende affianca l’emersione delle imprese del quarto capitalismo”, di cui al centro studi di Mediobanca sono profondi conoscitori e che pesa circa il 50% sul valore aggiunto dell’intera produzione manifatturiera nazionale.

I freni dello sviluppo sono almeno tre: il ruolo delle amministrazioni pubbliche, la crisi delle grandi imprese e gli effetti della globalizzazione. A contrapporsi a queste forze del "declino", ci sono i motori che spingono verso lo sviluppo: a livello micro è soprattutto la vitalità dei sistemi imprenditoriali locali e del "quarto capitalismo" che sta trasformando la nostra economia. Uno dei punti in discussione da tempo è la differenza tra i deflatori del Pil utilizzati dai diversi servizi statistici nazionali. Quelli italiani sarebbero troppo aggressivi, secondo Coltorti. Tanto che applicando alla manifattura italiana per esempio i deflatori tedeschi, il misero +0,7% di variazione media annua del valore aggiunto a prezzi correnti tra il '99 e il 2007, diventa +3,3%. E sale al +4,2% usando i deflatori francesi. Il dibattito è stato lanciato da tempo e l'Istat, a quanto risulta, sta lavorando per rivedere verso l'alto i dati sul valore aggiunto industriale.

E' auspicabile, per esempio, che le nuove misurazioni tengano presente il livello qualitativo dei prodotti: quello delle aziende italiane è migliorato molto negli ultimi anni ma, fa notare Coltorti, è stato integrato dalle statistiche con un effetto inflazionistico che, facendo aumentare i prezzi, si traduce in una perdita di competitività. In realtà, sarebbe proprio la capacità di molte aziende italiane medio-grandi di migliorare costantemente il prodotto che le mantiene competitive. <<Solo chi propone beni sufficientemente differenziati riesce a sfuggire alla corsa verso il basso (della qualità) o alla competizione dei beni standard prodotti dai paesi emergenti: computer, telefonini, smartphone compresi…>> chiarisce Coltorti. <<In particolare, nell'eurozona vedo una situazione simile al paradosso keynesiano: perseguendo la globalizzazione, i grandi gruppi sono riusciti ad abbassare i costi del lavoro spostando le produzioni altrove, ma ora subiscono l'effetto di un mercato interno impoverito perché è diminuito il potere d'acquisto delle classi medie>>. Al contrario, <<aziende flessibili come le nostre – ritiene il capoeconomista di Mediobanca - hanno più vantaggi che svantaggi nella presente fase congiunturale. Alcuni settori, l'auto ad esempio, non hanno di fronte mercati facili. I grandi hanno in questo momento un problema in più: allegerire i magazzini perché hanno prodotto più di quanto il mercato riesca a smaltire>>.

 Aspettando la revisione e soprattutto una maggiore omogeneità delle statistiche europee, non è comunque il caso di lasciarsi andare all'ottimismo.  <<Un fatto è certo: abbiamo una preoccupante massa di disoccupati nascosti (cassintegrati) a cui occorre pensare con urgenza. E questo problema credo possa risolversi solo rivitalizzando la domanda interna e riportando l'occupazione al primo posto della politica industriale>>. Quarto capitalismo e Mezzogiorno (<<che nell'ultimo decennio non è stato capace di contribuire allo sviluppo nazionale con una spinta proporzionalmente superiore a quella delle aree progredite>>) restano le <<più forti leve di cui disponiamo per combattere la tendenza recessiva indotta dalla grande crisi>>.