Con Gino Chiellino, docente di letterature comparate in Germania che ha già scritto più volte su questo blog, ci siamo confrontati su integrazione e appartenenza, prendendo spunto dalla vittoria della multietnica nazionale “tedesca” ai mondiali di calcio in Brasile. Una squadra in cui sono rappresentate sei nazionalità, compresa quella “di casa”, che ha alzato la coppa insieme ad una sola bandiera. Ne è nata una riflessione che ospito volentieri. Per capire meglio il contesto, è molto interessante leggere l’articolo che Maria Luisa Colledani ha scritto sul Sole 24 Ore all’indomani della vittoria della nazionale di Joachim Löw.
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di Gino Chiellino
Integrazione o appartenenza.
A proposito della sua situazione di rifugiato politico negli Stati Uniti d’America il filosofo tedesco Theodor W. Adorno annotava che tutto quello che non è quantificabile non conta a favore dei rifugiati politici. Oggi si può aggiungere che non conta neanche per i semplici immigrati. Quantificabili sono per esempio quelle competenze che gli immigrati mettono a disposizione della società d’arrivo ma solo se allo stesso tempo esse sono fruibili e controllabili da parte di chi le richiede: come lo sono le competenze di una badante o di una colf. Che poi la badante o la colf sia plurilingue e stia imparando l’italiano per la società italiana non conta finché non parlerà la lingua del posto in cui vive. Lo stesso principio viene applicato alla vita privata dei rifugiati politici o immigrati. A complicare le cose c’è inoltre una lingua italiana ancora poco sensibile alla diversità. L’unica cosa che interessa i cittadini italiani sembra che sia l’integrazione degli immigrati e non vogliono sentire parlare della loro appartenenza alla società italiana.
Se per integrazione s’intende quello che si richiede ai cittadini di uno stato democratico, cioè il rispetto del codice civile e di quello penale, è ovvio che lo stato d’integrazione di ogni immigrato è più che quantificabile ovvero è misurabile e quindi non si capisce una richiesta quasi ossessiva. A meno che i cittadini italiani non intendano per integrazione la rinuncia a tutto quello che per loro si rivela non quantificabile, cioè l’importanza della cultura di provenienza nella vita di tutti i giorni degli immigrati e rifugiati politici. Vivere la propria cultura di provenienza garantisce agli immigrati quella stabilità interna nella vita di tutti i giorni, che permette loro di svolgere i lavori che svolgono. Ecco perché la richiesta è inaccettabile e non può essere soddisfatta.
Da parte loro gli immigrati, consapevoli del loro stato d’integrazione, ovvero del fatto che uno stato non può richiedere agli immigrati niente di più di quanto chiede ai propri cittadini, pensano di potere raggiungere l’appartenenza attraverso l’integrazione. Niente di più illusorio per il semplice motivo che l’appartenenza è più quantificabile dell’integrazione. L’appartenenza, chi non ce l’ha per nascita, la raggiunge solo attraverso delle prestazioni uniche, di fronte alle quali scatta il meccanismo di accettare il diverso perché conviene alla società d’arrivo. I campi delle prestazioni uniche sono più che noti: essi vanno da quelli più d’elite, come la ricerca scientifica o la creazione artistica a quelli più popolari come lo sport. Quando un calciatore della nazionale italiana afferma di essere italiano non dice niente di nuovo; ma se pensa di avere raggiunto l’appartenenza alla società italiana si sbaglia perché in tal caso l’avrebbe potuta raggiungere con una prestazione unica come sarebbe stata la vittoria del campionato mondiale.
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Fin qui le riflessioni di Gino Chiellino, le cui ultime righe fanno chiaro riferimento a Mario Balotelli. E che però sembrano fatte su misura anche per un altro personaggio, Sergio Marchionne, che è riuscito a salvare l’americana Chrysler portandola sotto il gruppo Fiat, italiano. Un’impresa impensabile solo qualche anno fa, una “prestazione unica” come la definirebbe Gino Chiellino, e alla quale avevano rinunciato i tedeschi della Daimler (Mercedes).
Perché Marchionne, l’americano, ce l’ha fatta? Le ragioni sono varie, ma tra queste c’è probabilmente anche quella culturale: ” “Marchionne vive in lingua inglese e nella cultura nordamericana riesce a comunicare senza tradurre e quindi rassicura l’interlocutore. Mancando tali premesse non è riuscito a fare il colpaccio con la Opel, nonostante i convinti e ripetuti tentativi, perché ovviamente con la Merkel non poteva parlare la stessa lingua”.