L’intervento pubblico nel capitale delle banche è stato finora considerato dai più un’ipotesi improponibile in quanto bandita dalle regole europee sugli aiuti di Stato. In realtà uno dei princìpi fondamentali del Trattato è la neutralità del diritto Ue rispetto alla proprietà pubblica o privata. Se un intervento pubblico è fondato su una logica che anche un investitore privato avrebbe adottato, non c’è aiuto di Stato. Il Fondo Atlante, in cui c’è anche la Cdp, è stato approvato su questa base: non costituisce aiuto perché gli Npl vengono comprati al prezzo di mercato.
Davanti ai noti limiti dimensionali del fondo Atlante e per risolvere alla radice un problema che le incertezze del dopo-Brexit gonfiano a dismisura, rispunta l’ipotesi di un intervento pubblico che rispetti il “principio dell’investitore privato” e superi l’esame di Bruxelles. Una ipotesi circolata già nei mesi scorsi (si veda “Se il fondo Atlante non basta può intervenire lo Stato”, Ilsole24ore.com 26/4/2016) è di raggruppare gli istituti bancari in difficoltà in nuove realtà creditizie partecipate dallo Stato, sul modello delle vecchie Bin, le banche di interesse nazionale create nel ’36. I rischi e il patrimonio sarebbero condivisi in realtà più grandi, creando una massa critica che – con l’apporto del capitale pubblico – potrebbero reggere il peso delle sofferenze nel breve-medio periodo e riassorbirlo progressivamente. La quota pubblica, per la quale non c’è un limite, potrebbe arrivare anche al 20-25 per cento. Ma soprattutto, suggeriscono gli esperti di diritto comunitario, «c’è un precedente giuridico importante:…