Due miliardi e 100 milioni di euro da versare nelle casse dell’Unione europea possono sembrare una cifra enorme. E per certi versi lo sono, anche se sono riferiti agli 11 anni precedenti e pesano sui conti inglesi per meno di un centesimo all’anno del Pil. La richiesta della Ue al Regno Unito nasce dalla revisione periodica dei dati economici degli Stati membri e si basa sui conti degli istituti nazionali di statistica, tra cui il britannico Office for National Statistics, e riguarda anche altri Paesi, alcuni dei quali avranno un rimborso proprio con il contributo supplementare chiesto a Londra e ad altre tre capitali, tra cui Roma. Ma la «reazione sproporzionata» (definizione del Financial Times, dunque al di sopra di ogni sospetto) di David Cameron alla richiesta del presidente Barroso, si può spiegare solo se si inforcano le lenti della politica interna del Regno Unito. Il 7 maggio prossimo il premier inglese deve affrontare le elezioni politiche in un clima crescente di euroscetticismo, come ha dimostrato il voto per le Europee cinque mesi fa. E una «questione di modesta entità» rischia di diventare un macigno, venduto dalla destra euroscettica come la “punizione” inferta ai britanici per essere rimasti fuori dall’euro. Ciò che Cameron fa finta di non sapere (e che invece dovrebbe ricordare di tanto in tanto anche ai suoi elettori) è il vero motivo che tiene il Regno Unito ben ancorato all’Unione europea: il mercato interno popolato da oltre mezzo miliardo di consumatori. Compresi quelli dei Paesi dell’Est, il cui ingresso dieci anni fa ha portato ai nuovi equilibri da cui nascono anche i ribilanciamenti di oggi. Cameron ne prenda atto: non si può iscriversi ad un club e farne parte solo a giorni alterni.
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