Massimo D’Alema non si arrende e tenta in tutti i modi di riemergere dall’oblio a cui sembra condannato dal nuovo corso della politica italiana. L’obiettivo è sempre lo stesso: la poltrona di Alto rappresentante dell’Unione per la politica estera, che già gli era sfuggito cinque anni fa. Al di là delle posizioni negoziali degli altri paesi Ue, gli ostacoli alla nomina di Federica Mogherini, indicata sin dal primo momento dal governo Renzi, sembrano soprattutto interni. Lo suggerisce la lettura della stampa di oggi, con la presunta “minaccia” di Renzi di candidare l’ex premier (ma secondo i più autorevoli analisti delle vicende romane è, appunto solo una minaccia) e con l’intervento di Ricky Levi (la cui esperienza – non esaltante – nelle istituzioni comunitarie si limita al breve periodo in cui fu di portavoce di Romano Prodi, ruolo in cui, peraltro, fu sostituito da un inglese per arginare gli attacchi della stampa internazionale all’allora presidente della Commissione) che si affanna a dimostrare la presunta irrilevanza del ruolo di Mr. Pesc. A ciò si affianca l’ipotesi, strumentale al ripescaggio di D’Alema, di creare per la Mogherini uno staff tecnico guidato dall’ex ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, da pochi giorni sostituto di Tajani come commissario all’Industria, ma soprattutto ex capo di gabinetto di Massimo D’Alema. Per il presidente della fondazione ItalianEuropei è un tentativo di rientrare in gioco commissariando di fatto la Mogherini. Dietro le quinte, raccontano a Bruxelles, sta lavorando anche Gianni Pittella, dalemiano di ferro e bruciato dal tedesco Martin Schulz nella corsa tutta in casa Pse per la presidenza dell’Europarlamento.
A sostegno di questa ipotesi l’argomento della scarsa esperienza dell’attuale ministro. Ma se davvero si vuole superare questa obiezione mossa alla candidatura italiana, la strada non è questa bensì quella di una scelta “interna” alle strutture comunitarie, andando a pescare tra i cinque-sei alti funzionari italiani della Commissione quelli più esperti non solo di diritto e politica internazionali, ma anche dei complessi meccanismi “di palazzo”. La scelta non è difficile, ma le resistenze sono tante. E, come è palese, concentrate soprattutto a Roma. Come in passato, il peggior nemico di un candidato italiano è un altro italiano. Renzi è avvertito. Se può, non ci caschi.
Anche i più ingenui, infatti, non fanno fatica a capire che se l’unico partner Ue ad esporsi ufficialmente contro la nomina di Mogherini è stata la Lituania, l’ostacolo nel negoziato che si potrebbe chiudere questa sera a Bruxelles non è dei più ostici per un governo come quello italiano che, oltre a rappresentare uno dei tre grandi paesi fondatori, mette in gioco il proprio ministro degli esteri, forte anche del risultato elettorale ottenuto a maggio. Del resto, la contro-candidatura che avrebbero proposto i paesi contrari ad affidare all’Italia la responsabilità della politica estera dell’Unione, la bulgara Kristalina Georgieva, non si può dire che rappresenti un’alternativa così forte – sia in termini di esperienza che di caratura internazionale – da poter spingere Juncker e i partner europei a ficcare un dito in un occhio all’Italia, la quale poi dovrebbe comunque essere ricompensata in qualche modo. E’ vero che alla Germania non piace avere un’italiana in quella posizione, ma è ridicola l’accusa veicolata da Ft di essere eccessivamente filo-russa. La verità, piuttosto, è che la Merkel preferisce non rischiare interferenze sul filo diretto che ha instaurato con Mosca e vuole comunque continuare ad avere in mano il pallino delle relazioni Russia-Ue, come la gestione della crisi ucraina ha ampiamente dimostrato.
Chi sa di cose europee definisce una “negotiating position” il no di alcuni paesi (il più grosso, la Polonia, si è già sfilato) alla candidatura italiana. Il blocco dei paesi dell’Est sta cercando di ottenere un portafoglio di peso nel nuovo esecutivo e, secondo le voci che circolano con insistenza tra Consiglio e Commissione, sta puntando tutto sullo slovacco Maroš Šefčovič, uno dei vicepresidenti di Barroso con delega all’amministrazione e alle relazioni interistituzionali. Non è chiaro qual è l’obiettivo, ma di sicuro è di alto livello e per ottenerlo c’è bisogno di negoziare e stringere alleanze. E il “sì” italiano non sarebbe di poco peso.