Sul Sole 24 ore del 17 maggio ho raccontato dei forti contrasti tra due griffe della gioielleria italiana, le più importanti dopo la cessione di Bulgari ai francesi di LVMH a suon di miliardi. Proprio questa operazione ha scatenato gli appetiti e gli interessi sulle aziende del settore che, visti i multipli a cui è stata pagata Bulgari, hanno visto crescere il loro valore di mercato. Effetto tangibile su Damiani, quotata a Milano, e indiretto su Pomellato che in Borsa ancora non c'è. Su quest'ultima l'effetto-Bulgari si è visto quando il concorrente-rivale Damiani ha deciso di affidare a Mediobanca il compito di valutare la cessione del 18% che la famiglia (attenzione, non l'azienda quotata Damiani ma la famiglia) possiede nel capitale della Pomellato. Damiani dice che ha incaricato Mediobanca dopo le ripetute sollecitazioni a vendere che ha ricevuto da big mondiali dell'oreficeria. Pomellato insinua il sospetto, invece, che il concorrente abbia bisogno di far cassa per ridare ossigeno all'azienda che da qualche anno è in sofferenza, come registra l'andamento in Borsa. Oggi il titolo Damiani è scambiato intorno a 1,15 euro contro i 4 euro dell'Ipo nell'autunno del 2007. Senza contare che il 30% del valore attuale il titolo Damiani lo ha acquistato proprio dopo la vendita di Bulgari ai francesi.
La storia secondo me è emblematica delle debolezze del sistema imprenditoriale italiano. Quando si parla di "crescita dimensionale" per competere nei mercati globali, esempi come Damiani-Pomellato ci aiutano a capire perché in Italia è così difficile e spiegano come mai perché le nostre aziende possono aspirare a diventare, al massimo, "multinazionali tascabili".
Damiani aveva acquistato la quota nel 2002 "senza dir nulla", con l'obiettivo – dichiarato solo in un secondo tempo – di realizzare un polo italiano della gioielleria. Quell'obiettivo è fallito anche perchè la quota non ha alcun diritto di governance o di prelazione e Pomellato – che allora era in difficoltà – oggi si è rimessa in sesto, cresce e ha i conti in ordine. Damiani invece deve risolvere i suoi problemi, legati soprattutto alla debolezza del mercato italiano e soprattutto del wholesale (le vendite attraverso i grossisiti) che pesa per oltre il 70% sul totale del fatturato e nei primi nove mesi dell'esercizio chiuso a marzo 2011 perdeva il 12% dei volumi a cambi costanti.
Piccolo dettaglio: le sorti di Pomellato si sono risollevate in coincidenza con un cambio al vertice che ha visto l'uscita (dicono traumatica) dell'ex ad, Francesco Minoli, che oggi siede indovinate dove? Nel Cda di Damiani. Anche per questo, nella mossa di Damiani c'è chi vede spiacevoli risvolti personali fatti di risentimenti e ripicche.
Nel quartier generale milanese di Pomellato, oggi controllata con il 77% dalla Ra.Mo. che sta per Rabolini-Morante, l'annuncio di Damiani ha portato non poca fibrillazione. Pino Rabolini, fondatore della griffe di gioielli, e Andrea Morante, ex banchiere d'affari che ha condotto come advisor del Tesoro alcune tra le più importanti Ipo delle aziende pubbliche italiane, hanno fatto muro. Morante (che nella Ra.Mo. ha il 5% ma pare abbia una prelazione per crescere) di quotazioni se ne intende ha fatto sapere che vuole portare l'azienda in Borsa nel 2013. Ma attenzione: non la società operativa in cui si trova la partecipazione di Damiani, ma la Ra.Mo., per "farne un polo aggregante" e privando il rivale di Valenza della possibilità di vendere in Borsa. Il ragionamento che sta alla base è il seguente: questa quota non può incidere nella gestione della società. Quindi può essere venduta ma "a prezzo di congruità": cioè fatto 100 il valore di Pomellato, la partecipazione varrebbe non 18 ma il 30-40% in meno. A questo prezzo sarebbero disposti a comprare anche Rabolini e Morante con cui – pare – ci fossero già trattative in corso.
Damiani fa un ragionamento diverso: Rabolini ha 76 anni e gli eredi non lavorano in azienda. Morante viene dal mondo della finanza e solo da poco si è convertito al mestiere del manager-imprenditore. Dunque è molto probabile che Pomellato nel giro di qualche anno debba affrontare un cambio di proprietà: essere anche solo sleeping partner nel capitale – sostiene Damiani con l'intento evidente di invogliare i potenziali acquirenti – dà una chance in più per acquisirne il controllo. Si sono mossi i nomi più importanti della gioielleria mondiale, da Ppr a Cartier, ma si sono subito fermati davanti al 'no' secco di Rabolini e Morante.
In ogni caso, i giochi si sono aperti. La situazione è destinata ad evolversi. Per il sistema-paese sarebbe utile un'aggregazione tra due eccellenze del lusso made in Italy ma le premesse fanno intravedere uno scontro da cui potrebbe trarre vantaggio qualche colosso straniero.