PARMA – 23 marzo 2010 – Una «colossale dormita». O come minimo una «colpevole sottovalutazione», dicono a Parma. Perché non si poteva non pensare che i francesi non avessero in mente di fare nell'alimentare quello che hanno fatto nell'energia. È come nel calcio: quando una squadra prende un gol, e questo è un bel gol messo a segno dai francesi, la colpa è quasi sempre della difesa. «Nel caso di Parmalat la difesa, industriale, è mancata. O è rimasta imbambolata». A Parma la città sembra aver vissuto finora con distacco la mossa apparentemente fulminea di Lactalis che fino a poche settimane fa negava anche solo di avere un dossier o un semplice interesse per Parmalat e, in pochissimi giorni, ha raggiunto il 29% e, salvo costose sorprese, si è aggiudicata la partita. A ben vedere, però, la mossa dei francesi è stata sì fulminea, ma non del tutto inaspettata. Nella "petite capitale", come veniva chiamata la città durante il ducato di Maria Luigia d'Austria, la discesa dei francesi risale, almeno nell'economia, a qualche anno fa. È del 2007 l'acquisizione di Cariparma da parte di Credit Agricole, l'istituto di riferimento del mondo agroindustriale francese. A vendere era stata Banca Intesa, dopo il matrimonio con il Sanpaolo di Torino. Con la fusione, i francesi perdevano il ruolo di primo azionista in Banca Intesa. Come ricompensa chiesero Cariparma, Friuladria e 202 filiali del nuovo gruppo. Per togliere il disturbo dal capitale di Intesa Sanpaolo, però, se la presero comoda e attesero l'intervento dell'Antitrust. In quella richiesta a Intesa Sanpaolo oggi c'è chi vede un progetto lungimirante, i cui effetti con l'operazione Parmalat assumono un rilievo allora non immaginato. Sia chiaro, Cariparma e Credit Agricole – a quanto si sa – nella vicenda Lactalis-Parmalat non sono direttamente coinvolti, ma in patria la casa madre ha stretti rapporti d'affari con il colosso del latte. Un disegno francese però si intravede. È di un anno e mezzo fa il tentativo di Cariparma di mettere le mani sulla parte più interessante della Fiera di Parma, con lo scorporo della società in una holding immobiliare a controllo pubblico e in una newco operativa sugli eventi a controllo privato al 70%, di cui il 51% detenuto dalla banca del gruppo Agricole. Uno degli asset più importanti della fiera parmense, guarda caso, è Cibus, uno degli eventi più importanti nel settore alimentare a livello europeo. «I francesi – scrisse allora Il Sole 24 Ore – puntano a trasformare la città emiliana in un vero e proprio hub alimentare in terra italiana». L'ipotesi si è arenata, ma l'interesse francese per la food-valley è immutato. E l'operazione Parmalat lo dimostra. Insieme ad altri piccoli ma significativi segnali che da queste parti oggi tornano di attualità. È di fine dicembre, tanto per fare un esempio, l'ingresso di CA Agro Alimentare (holding di partecipazioni della banca francese di cui sono azionisti oltre alla "Banque verte", anche Cariparma, Friuladria e Fondazione Cariparma) nell'azionariato di Mutti, storico produttore di conserve. È una partecipazione di minoranza realizzata con un aumento di capitale di 5 milioni. Risorse che l'azienda, con i conti in buona salute, vuole investire per espandersi sui mercati esteri. C'è poi chi ricorda la vicenda della Rocco Bormioli in cui, raccontano le cronache, altri due grandi azionisti francesi, Bnp e Danone, giocarono un ruolo importante in alcune acquisizioni Oltralpe che poi si sono rivelate molto pesanti da digerire per l'azienda venduta poi alla Banca popolare di Lodi (oggi Banco Popolare). Degli sviluppi della vicenda Parmalat ieri nessuno, tra i parmensi che contano, aveva voglia di parlare. Telefonini spenti, riunioni improvvise o interminabili. Insomma, nessuno si schiera apertamente contro i francesi, se non a microfoni spenti. La speranza, probabilmente, è che anche Lactalis, se alla fine si aggiudicherà il controllo di Parmalat, si comporti come ha fatto Cariparma che a Parma ha stabilito il suo quartier generale italiano. «In questi casi – fa notare un esperto della realtà industriale emiliana – il nodo è capire se le fasi produttive e le funzioni strategiche resteranno sul territorio o saranno trasferite in Francia. Nel caso di Cariparma sono rimaste in città. Siamo nella food valley, se i francesi trasferissero il cuore di Parmalat altrove sarebbero matti». In ogni caso in città un "responsabile" diretto o indiretto lo hanno già individuato. È Carlo Salvatori, presidente di Lazard Italia, advisor dei tre fondi nella definizione dell'accordo che – nonostante gli annunci – si è dissolto davanti ai 2 euro e ottanta centesimi offerti da Lactalis, il 7-8% in meno dei 3 euro fissati per il "liberi tutti". Salvatori è anche presidente della Banca del Monte di Parma, in procinto di passare a Intesa. In realtà sin dall'inizio il sospetto che dietro ai fondi ci fossero proprio i francesi era venuto a molti. E non solo a Parma. L'operazione ricordava molto da vicino quella di Galbani, che il fondo di private equity BC Partners aveva acquisito e dopo due anni venduto proprio a Lactalis. Allora il manager di Galbani era Maurizio Manca, lo stesso che subito dopo l'accordo di fine gennaio tra Zenit, Skagen e MacKenzie, era stato indicato come il nome su cui puntavano i fondi per sostituire Bondi alla guida di Parmalat. Una coincidenza? Può darsi. Per ora il nome di Manca è sparito dalle liste e dai giornali. Ma la pista francese alla fine si è rivelata giusta. «I fondi vogliono un percorso di crescita e sviluppo per Parmalat» disse Salvatori all'indomani dell'accordo. Vedremo se vendere le quote a Lactalis è stata la scelta giusta. «Per la filiera alimentare italiana – sostiene invece Andrea Sianesi, vicedirettore del Mip, la business school del Politecnico di Milano – è un disastro. Perderemo il controllo di un'azienda eccellente che era riuscita a risanarsi e a mantenere un brand fortissimo. I francesi acquisiscono una massa critica ancora più grande e una forza contrattuale maggiore verso la grande distribuzione che le aziende italiane non hanno».
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