Eccetto che con Lactalis, su Parmalat nessun accordo è escluso. Corrado Passera apre così all'intesa tra la cordata italiana (che nel capitale della società per ora ha una quota quasi ininfluente) e i tre fondi che invece hanno più del 15% e dicono di poter arrivare sopra il 20%. Ma quale sarà l'accordo? Certo l'ambizione dei fondi non è quella di fare i soci stabili di Parmalat per tanto tempo. Prima o poi vorrano portare a casa una plusvalenza. E quel momento si avvicina. La cordata italiana, con Intesa Sanpaolo e Ferrero in prima fila, dunque, deve prepararsi a tirar fuori i soldi. Più di quanti sarebbero stati necessari un mese fa.
Facciamo due conti. Vista la bagarre che si è scatenata, è molto probabile che chi vorrà assicurarsi il controllo di Parmalat dovrà avvicinarsi il più possibile al 30% del capitale, quota oltre la quale scatta l'opa. A meno che Lactalis non abbia bluffato ancora una volta, oltre questa quota difficilmente si salirà. Alle chiusure di borsa di venerdì 18 marzo, il 29,9% valeva 1,34 miliardi di euro, il 19% in più rispetto a tre settimane prima, quando le azioni Parmalat erano scambiate a 2,188 euro contro i 2,6 dell'ultima quotazione. Euro più euro meno, 200 milioni di differenza. e non è finita. Si può scommettere che il prezzo salirà ancora.
Considerate le quote che i componenti della cordata italiana hanno già e sperando che la corsa si fermi prima del 29,9%, serviranno tra i 700 e gli 800 milioni di euro.
Tutti miopi. Può apparire scontato, ma è lecito parlare di miopia generalizzata, dalle banche al governo all'industria. Almeno da metà febbraio, infatti, ad Intesa Sanpaolo e Mediobanca hanno esaminato piani industriali e proposte per trovare una soluzione italiana alla vicenda Parmalat, dopo che i tre fondi (Mackenzie, Skagen e Zenit) avevano ufficializzato il patto per far fuori Bondi e mettere le mani sul tesoretto di 1,4 miliardi in cassa.
Già allora molti segnali portavano a Lactalis, non ultimo il nome di Maurizio Manca, indicato per primo dal Corriere della Sera come l'uomo dei fondi per sostituire Bondi. La business community si era messa in allarme, visti i precedenti. Manca infatti era presidente e a.d. di Galbani quando, nel 2006, l'azienda fu venduta da BC Partners a Lactalis. Ma il manager ha all'attivo altre cessioni di marchi storici, dall'olio Bertolli agli spagnoli alla Findus (questo come presidente di Unilever) al fondo inglese Permira nel 2010. Lactalis però ha smentito più volte l'esistenza di un dossier su Parmalat e il nome di Manca è sparito dalle liste e dai giornali. Infatti non figura nella lista di Lactalis così come non c'è in quella dei fondi. I fondi, però, hanno indicato in Rossi l'a.d. ad interim…. E poi c'è un altro indizio: la somma della quota in mano ai fondi (15,3%) e quella potenziale di Lactalis (14,28%) è pari al 29,58%. Difficile che possa trattarsi di un caso.
Intesa Sanpaolo e Mediobanca erano al corrente di questi intrecci ma hanno preferito aspettare. Così come hanno preferito aspettare il governo e i Ferrero che, con altri gruppi – da Granarolo ai Benetton – erano stati avvicinati per creare una cordata. Manca la controprova, ma è molto probabile che se gli italiani si fossero mossi prima, Lactalis sarebbe rimasta in disparte.
In tutto questo gongolano i fondi che vedono avvicinarsi quota 3 euro, prezzo al quale hanno fissato il "liberi tutti". O dagli italiani o dai francesi, sono pronti a incassare.
Una lezione per il futuro.