Il Ceta potrebbe essere salvato in extremis, ma che si arrivasse all’impasse di questi giorni lo avevamo raccontato sul Sole già a maggio scorso, quando si andava profilando la decisione di considerare il trattato commerciale tra Ue e Canada un accordo “misto” e quindi da sottoporre all’approvazione di tutti i parlamenti degli Stati membri. E avevamo indicato anche le responsabilità della Germania, come oggi sta venendo alla luce in modo dettagliato.
Ecco l’analisi pubblicata sul Sole 24 ore il 14 maggio scorso.
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Se l’egemonia tedesca spunta le armi dell’Unione
Il Consiglio dell’Unione europea ha approvato ieri il progetto di accordo commerciale con il Canada, noto come Ceta, Comprehensive economic and trade agreement. A giugno la Commissione Ue presenterà la proposta di ratifica accelerata per arrivare alla firma a ottobre, dopo il voto dell’Europarlamento e dei Paesi membri. Ma oggi nessuno può dire cosa accadrà veramente. Il punto, sollevato dal neoministro dello Sviluppo, Carlo Calenda, dopo il Consiglio Affari esteri è se il trattato è da considerare un accordo “misto” oppure no. Nel primo caso richiederebbe l’approvazione di tutti i parlamenti nazionali dei 28 stati membri che in alcuni casi di parlamenti ne hanno due. Basta che un Paese o un parlamento si metta di traverso e un accordo di cui si discute dal 2009 diventa carta straccia. E insieme all’accordo diventa carta straccia la credibilità internazionale delle istituzioni europee che quel testo hanno negoziato con la controparte e approvato, seguendo un processo democratico. Così come democratico è stato il voto espresso due giorni fa dal parlamento europeo contro il riconoscimento dello status di economia di mercato alla Cina. La vicenda del Canada rischia di essere solo l’antipasto di quello che può accadere con il Ttip, il trattato di partenariato transatlantico con gli Stati Uniti con cui ha molte cose in comune, a cominciare dall’arbitrato.
Quello che sta accadendo alle politiche commerciali dell’Unione europea riflette il profondo travaglio che vive il processo di integrazione. Le opinioni pubbliche nazionali chiedono da un lato maggiore tutela nei confronti di partner commerciali aggressivi, come avviene con la Cina, ma dall’altro temono che liberalizzazioni eccessive possano ridurre le garanzie per cittadini e consumatori. A volte però dimenticano che ciò che può ottenere l’Unione – forte di un mercato di 500 milioni di consumatori – è di gran lunga superiore a quello che potrebbe ottenere ciascuno Stato membro lasciato solo.
L’accordo con il Canada avrebbe potuto essere confezionato in modo da richiedere solo la ratifica europea e non anche quelle nazionali. In Commissione, in un oscuro intreccio di interessi di bottega, c’è chi non ha voluto percorrere questa strada, lasciando con gli accordi “misti” un potere eccessivo nelle mani di ben 38 organismi parlamentari. È successo anche con l’Ucraina, la cui ratifica è stata bloccata dal un paio di milioni di voti contrari che però erano la maggioranza nel referendum olandese del mese scorso. Fu quell’accordo a scatenare la rivolta del 2014 e l’intervento russo. «Imbrigliata dagli Stati – ha denunciato Calenda – la politica commerciale europea rischia di non esistere più». Guarda caso, tra gli Stati che frenano sul Canada c’è la Germania.
Ancora una volta, tra spinte centrifughe nazionaliste e malcelata voglia di egemonia tedesca, il rischio è che anche gli accordi di libero scambio si traducano nell’ennesimo colpo alla credibilità e alla solidità delle istituzioni comunitarie e, in definitiva, al processo di integrazione.
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