Per la seconda volta, in pochi giorni, Mario Draghi ha parlato da politico europeo oltre che da presidente della Bce. Ieri nella periodica audizione all’Europarlamento, ha declinato più in dettaglio – sollecitato anche dagli europarlamentari – ciò che aveva detto il 13 settembre a Trento, quando gli era stato assegnato il Premio De Gasperi. Non c’è bisogno di saper leggere tra le righe per cogliere il significato delle parole di Draghi quando, nel concludere il suo intervento iniziale e prima delle domande dei deputati, ha citato Carlo Azeglio Ciampi che aveva definito l’euro “la dimostrazione più grande della volontà unitaria dei popoli europei e una forza trainante dell’integrazione politica”.
“I sentimenti diffusi di insicurezza, tra cui l’insicurezza economica- ha detto Draghi – rimangono una delle principali preoccupazioni. Non possiamo semplicemente aspettare tempi migliori: abbiamo bisogno di rinnovare i nostri sforzi per garantire che l’Unione economica e monetaria offra protezione e prosperita’. La Bce fara’ la sua parte”. Ma ha aggiunto: “E’ importante assicurare che l’Unione europea soddisfi le aspettative dei suoi cittadini”. Come a Trento, il presidente della Bce non si riferisce solo all’insicurezza economica. Si riferisce anche a quella che deriva dal terrorismo e dai conflitti ai confini dell’Unione, che in vario modo minacciano i cittadini europei e a cui non può rispondere la Bce ma le istituzioni politiche dell’Unione.
Draghi, dunque, parla ancora una volta e sempre di più da politico europeo, forse per riempire il vuoto disarmante in cui è pian piano scivolato il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker nel suo discorso sullo stato dell’Unione, il 14 settembre a Strasburgo, o per contrastare la deriva intergovernativa alimentata anche dal presidente del Consiglio europeo, il polacco Donald Tusk, come testimonia la lettera inviata ai capi di stato e di governo alla vigilia del vertice di Bratislava pochi giorni or sono, il primo senza il Regno Unito.
Alcuni passaggi Dal discorso di Draghi a Trento:
“La domanda è semplice ma fondamentale: lavorare insieme è ancora il modo migliore per superare le nuove sfide che ci troviamo a fronteggiare? Per varie ragioni, la risposta è un sì senza condizioni. Se le sfide hanno portata continentale, agire esclusivamente sul piano nazionale non basta. Se hanno respiro mondiale, è la collaborazione trai i suoi membri che rende forte la voce europea”.
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Quanto alle risposte che possono essere date soltanto a livello sovranazionale, dovremmo adottare lo stesso metodo che ha permesso a De Gasperi e ai suoi contemporanei di assicurare la legittimazione delle proprie azioni: concentrarsi sugli interventi che portano risultati tangibili e immediatamente riconoscibili.
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Tali interventi sono di due ordini.
Il primo consiste nel portare a termine le iniziative già in corso, perché fermarsi a metà del cammino è la scelta più pericolosa. Avremmo sottratto agli Stati nazionali parte dei loro poteri senza creare a livello dell’Unione la capacità di offrire ai cittadini almeno lo stesso grado di sicurezza.
Ciò che rende oggi questa urgenza diversa dal passato è l’attenzione che dovremo porre agli aspetti redistributivi dell’integrazione, verso coloro che più ne hanno pagato il prezzo. Non credo ci saranno grandi progressi su questo fronte e più in generale sul fronte dell’apertura dei mercati e della concorrenza se l’Europa non saprà ascoltare l’appello delle vittime in società costruite sul perseguimento della ricchezza e del potere; se l’Europa, oltre che catalizzatrice dell’integrazione e arbitra delle sue regole non divenga anche moderatrice dei suoi risultati. È un ruolo che oggi spetta agli stati nazionali, che spesso però non hanno le forze per attuarlo con pienezza. È un compito che non è ancora definito a livello europeo ma che risponde alle caratteristiche delineate da De Gasperi: completa l’azione degli Stati nazionali, legittima l’azione europea.
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In secondo luogo, se e quando avvieremo nuovi progetti comuni in Europa, questi dovranno obbedire agli stessi criteri che hanno reso possibile il successo di settant’anni fa: dovranno poggiare sul consenso che l’intervento è effettivamente necessario; dovranno essere complementari all’azione dei governi; dovranno essere visibilmente connessi ai timori immediati dei cittadini; dovranno riguardare inequivocabilmente settori di portata europea o globale. Se si applicano questi criteri, in molti settori il coinvolgimento dell’Europa non risulta necessario. Ma lo è invece in altri ambiti di chiara importanza, in cui le iniziative europee sono non solo legittime ma anche essenziali. Tra questi oggi rientrano, in particolare, i settori dell’immigrazione, della sicurezza e della difesa.
Entrambi gli ordini di interventi sono fondamentali, poiché le divisioni interne irrisolte, che riguardano ad esempio il completamento dell’Uem, rischiano di distrarci dalle nuove sfide emerse sul piano geopolitico, economico e ambientale. È un pericolo reale nell’Europa di oggi, che non ci possiamo permettere. Dobbiamo trovare la forza e l’intelligenza necessarie per superare i nostri disaccordi e andare avanti insieme. A tal fine dobbiamo riscoprire lo spirito che ha permesso a pochi grandi leader, in condizioni ben più difficili di quelle odierne, di vincere le diffidenze reciproche e riuscire insieme anziché fallire da soli.
Quella di Draghi è una visione europeista concreta, che risponde anche alle legittime istanze dei più deboli dalle quali spesso traggono forza spinte populiste e confuse con cui né l’Europa né gli stati nazionali possono andare lontano.