Nel cuore della Magna Grecia, nel punto più stretto della Penisola, sta venendo alla luce un anfiteatro di epoca romana. L’unico in tutta la Calabria. Non è Sibari né Crotone o Locri. È il parco archeologico di Scolacium noto alla gente del posto come “la Roccelletta”. Su una collina, da cui la vista spazia sullo Jonio da Capo Colonna fino a Punta Stilo, quasi duemila anni orsono nella colonia romana Minervia Nervia Augusta Scolacium, rifondata dall’imperatore Nerva, fu costruito un anfiteatro da 16-17mila posti.
Siamo nel comune di Borgia, a cinquanta chilometri da dove nel 1972 un sub dilettante vide sbucare dal fondale un braccio umano. Pensò ad un cadavere. Invece era uno dei ritrovamenti più importanti nella storia della Magna Grecia: i Bronzi di Riace. Scolacium, nascosta dall’uliveto che l’ha protetta per secoli, è un libro aperto che racconta l’avvicendarsi della storia. La città romana sorse poco più di un secolo prima di Cristo per iniziativa di Caio Gracco sui resti di Skylletion, colonia greca del VI secolo a. C. considerata di origine ateniese ma più probabilmente fondata da Crotone per tenere a bada Locri Epizefiri. Rifondata nel 96-98 d.C. da Nerva, prospera in età augustea e tardo romana. Poi la decadenza e l’oblio tra il VII e l’VIII secolo, anche per la minaccia delle incursioni saracene.
Scolacium (il cui nome è stato conservato dalla vicina Squillace) può essere considerata dunque l’antica Catanzaro, sorta più tardi pochi chilometri all’interno su colline più sicure e difendibili. La parte greca della città è ancora nascosta sotto un’altura brulla e richiederà tempo e risorse per tornare alla luce. Gli archeologi non hanno dubbi: lì c’è un altro pezzo di storia della colonizzazione greca.
Il punto è davvero strategico. Dotata di un porto al centro del golfo a cui dà il nome, Scolacium divenne punto di riferimento per i traffici commerciali con l’Africa e l’Oriente. Il museo del parco ne conserva molti reperti. Ma soprattutto era all’inizio della “via Istma”, la strada che lungo due fiumi, il Corace e l’Amato, copriva i pochi chilometri che separano lo Jonio al Tirreno. «Prima fra le città dei Bruzi, si crede fondata da Ulisse» scriveva intono al 555 d.C. il suo cittadino più illustre, Cassiodoro. Perché tra i miti di fondazione della città c’è anche quello che riporta all’eroe della guerra di Troia, ripreso ai giorni nostri dallo storico tedesco Armin Wolf. In questo lembo di terra, infatti, pare vivessero i Feaci di re Alcinoo e della principessa Nausica che accolsero il naufrago Ulisse nel suo peregrinare verso Itaca. Mitologia. Che non dispiace alle regole del marketing.
Dal foro, attraversato dal decumano e dominato dal capitolium, verso il teatro e poi alla necropoli ci accompagna Alfredo Ruga, archeologo cresciuto tra queste pietre. Le conosce una per una, si animano per raccontare solo a lui storie che altri non sentono. Lo seguiamo. Fino alla collina dell’anfiteatro, dove per incitare i gladiatori il pubblico giungeva anche dalle altre città. Le prossime campagne di scavi potrebbero restituire nuove significative testimonianze e impreziosire il ricco museo in cui già ora raffinate sculture come la statua della Fortuna, il Genio di Augusto e un raro esemplare del Germanico (generale figlio adottivo dell’imperatore Tiberio che lo aveva indicato come successore) mostrano il peso della presenza di Roma nell’Italia del Sud.
Proprio all’ingresso del parco c’è però un’altra pagina di storia che narra della posizione cruciale di Scolacium. È la basilica di Santa Maria della Roccella, uno dei monumenti medievali più significativi della regione. Costruita dai Normanni nel XII secolo sui resti della città romana (nel frattempo cancellata dalle mappe e dalla memoria) pare non sia mai stata completata. Forse voleva essere un simbolo imponente della cristianità sulla sponda jonica, in corrispondenza dell’abbazia benedettina di Sant’Eufemia, costruita sul Tirreno un secolo prima tra le rovine dell’antica Terina, da Roberto il Guiscardo impegnato nella conquista della Calabria. Prima dell’istituzione del parco i ruderi della basilica, seminascosti dai rovi, erano ricovero per mandrie di pecore. Oggi fanno da palcoscenico naturale a mostre d’arte contemporanea, opere teatrali e concerti.
Il lavoro di recupero compiuto finora – il cui merito va a chi ha saputo restituire questi luoghi e la loro storia al patrimonio di tutti, dai Beni culturali e alla Soprintendenza – non può tuttavia arrestarsi qui. Senza una seria valorizzazione turistica che trasformi questo piccolo gioiello in posti di lavoro e un po’ di benessere, resta un lavoro a metà. La legge Ronchey qui non ha funzionato. I visitatori, che pure arrivano, trovano un sito archeologico ricco, ordinato e gradevole. È tantissimo, ma non basta. Fatto il prodotto bisogna cominciare a venderlo. Non c’è biglietteria perché la gara è andata più volte deserta. L’area di ristoro è vuota per lo stesso motivo. Non c’è una libreria né tantomeno merchandising. Per non parlare delle guide: ce ne sono di bravissime ma per trovarle dovete avere solide entrature in zona. Il cattivo pensiero – con le casse pubbliche sempre più vuote – è che il parco diventi economicamente insostenibile e il futuro riservi ancora abbandono ed oblio. Facciamo in modo che rimanga solo un cattivo pensiero.