Dopo il vertice europeo di Bratislava un’autorevole fonte, esperta di questioni comunitarie e coinvolta in prima persona nelle vicende di cui parla, mi ha inviato una riflessione che è molto più di un’articolo. E’ una lezione di storia sugli ultimi 15 anni dell’Unione europea, che aiuta a capire perché siamo arrivati al punto in cui ci troviamo oggi, quali sono le responsabilità e soprattutto quale potrebbe essere l’atteggiamento più efficace del Governo italiano. Mi sembra giusto condividerla con i lettori del blog.
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Se Goethe vivesse ai giorni nostri si interrogherebbe senz’altro sulle addolorate espressioni di affetto del nostro Primo Ministro verso la leggera e sfuggente Europa. Questa ahimé lo ricambia con distacco al punto che le pene d’amore di Renzi sono oramai conclamate. “Io le voglio tanto bene, ma posso anche stare da solo”. “Io faccio tutto quello che mi chiede ma lei continua a preferire gli altri (un’altra, in verità)”.
Ma che accade nella storia d’amore e di comune interesse tra Europa e Italia? Che cosa ha fatto Europa a Bratislava perché i dolori del giovane Renzi si acuissero a questo punto?
Tra le molte chiavi di lettura vi offro la seguente. Renzi (fuor di metafora, l’Italia) soffre perché non ha ancora messo a fuoco il momento storico che stiamo vivendo e quale negoziato dobbiamo impostare per rilanciare un ciclo di cooperazione continentale che è attualmente in evidenti e gravi difficoltà. L’Italia si ostina a guardare indietro e a discutere, anzi protestare, di fiscal compact e altri trattati analoghi, come se questo fosse il tema della discussione. Mettiamoci il cuore in pace: il rigore fiscale non è negoziabile per il semplice motivo che almeno 250 milioni di europei esprimono governi che sostengono questa linea. Attendersi che cambieranno progetto di società e rinnegheranno gli accordi ratificati per compiacere all’Italia è puerile, un’illusione adolescenziale per i pupetti mal cresciuti del direttorio penta stellato.
L’oggetto del negoziato è niente di meno che la fase due dell’allargamento ai dieci paesi dell’Est la cui prima fase si è conclusa nel ciclo 2004/2007. Quello a cui bisogna mettere mano è il disastro che ci ha lasciato in eredità la Commissione di Romano Prodi con la sua sconsiderata inversione delle priorità.
Durante il periodo chiave del 1999-2004, Prodi ha presieduto la Commissione dell’attuazione della fase tre dell’Euro (con uscita di scena delle monete nazionali), il progetto della Costituzione per l’Europa e l’allargamento. Quest’ultimo, non dimentichiamocelo, includeva ( e include tuttora) l’adesione della Turchia.
Nella logica di uno sviluppo armonioso di un’Europa politica – che necessariamente deve accompagnare e sostenere la moneta unica e dalla cui assenza derivano moltissime delle storture che hanno reso la gestione della Grande Recessione un funambolismo da dilettanti scriteriati – l’ordine delle azioni avrebbe dovuto essere quello appena indicato: a) lancio della moneta unica e sua applicazione progressiva attraverso una fase transitoria b) negoziato e entrata in vigore di una legge Fondamentale del continente (la Costituzione per l’Europa) che avrebbe dovuto permettere la nascita di una comunità politica di stati che condividono principi fondamentali e valori comuni non negoziabili attraverso l’attribuzione di diritti individuali ai cittadini europei da poter far valere non solo nei paesi di emigrazione ma anche in patria c) l’allargamento. Ma non la svendita a cui abbiamo assistito ma un’entrata progressiva e ordinata per i paesi che avessero davvero sottoscritto fino in fondo a quei principi e adottato la moneta unica sin dall’adesione.
La Gran Bretagna e gli Stati Uniti, complice la sorridente debolezza di Prodi, riuscirono con successo a far invertire questa priorità spingendo per l’allargamento prima di aver acquisito la Costituzione. I referendum olandese e francese hanno così ucciso la costituzione preservando l’allargamento in condizioni di tale precarietà sociale e politica da produrre gli effetti nefasti che si vedono ora.
Ma procediamo con ordine.
Che c’entra Prodi? Il Romano nazionale ha commesso due errori monumentali: ha ceduto alle sirene anglo americane dell’allargamento politico da farsi quanto prima tanto meglio per utilizzare la debolezza di Mosca. Così facendo abbiamo incamerato alla rinfusa e senza discernimento paesi non pronti alla lezione di Schuman e democraticamente deboli, e abbiamo scatenato il risentimento russo che ha nutrito e nutre tuttora Putin e una larga parte della società russa. Un potenziale alleato strategico è stato così mantenuto artificialmente nel ruolo del fellone a priori con grave instabilità alle nostre frontiere e perdite economiche rilevanti.
Il secondo grave errore è stato sommare all’allargamento “Big Bang” dei dieci l’apertura dei negoziati con la Turchia. Con questa sola decisione Prodi ha permesso la giunzione tra il populismo di sinistra di origine vetero-sindacale ( la sindrome dell’idraulico polacco che ruba il lavoro al povero e onesto lavoratore francese) e la xenofobia della destra fascistoide alla Le Pen o Pim Fortuijn che si è agevolmente nutrita del pericolo islamico turco per opporsi alla Costituzione. Il risultato è stato il disastro del maggio-giugno 2005 (le bocciature della Costituzione europea da parte di Francia e Olanda) da cui l’Unione europea non si è ancora sollevata.
A Bratislava si sono confrontati il nucleo duro dell’ovest e il nucleo duro dell’est, che ha in più nel polacco Tusk il portatore malsano di idee istituzionali tanto vaghe – “le istituzioni europeee devono sostenere le politiche nazionali”. Quali? Come? Perché? – quanto distruttive del delicato equilibrio costruito da Schuman, De Gasperi Adenauer e più recentemente da Delors, Kohl e Draghi.
La Polonia, l’Ungheria, la Repubblica Ceca, la Slovacchia e il Regno Unito non appartengono (ancora, più) all’Unione europea di cui abbiamo bisogno per continuare il cammino intrapreso nel 1952. La Turchia attuale non è degna di essere nemmeno candidata di una tale adesione. Cipro non riunificata non può restare solo perché costituisce lo sportello bancario dell’esportazione di capitali, più o meno leciti, di provenienza russa o libanese. La Romania e la Bulgaria sono decenni lontani dal livello richiesto.
Si deve esigere la partecipazione piena e intera al progetto di un’Europa con moneta unica, un nucleo di politiche fiscali condivise, una difesa comune operativa, una frontiera comune da gestire in comune, una politica commerciale davvero unica, una politica estera coesa, una politica ambientale ambiziosa, una democrazia condivisa fondata sul rispetto inderogabile dei diritti dell’Uomo.
Attorno c’è il mercato interno, a cui possono accedere gli altri, sempre che lo rispettino nella sua integralità.
Questo avrebbe dovuto essere il negoziato di Bratislava che non è mai cominciato. Le conclusioni del vertice non possono perciò che far crescere i dolori italiani. Ma la nostra reazione deve essere esplicita e forte a favore di una vera aggregazione e non le solite doglianze, peraltro risibili se si usano a pretesto, come ha fatto Renzi, un paio di miliardi per la messa in sicurezza sismica delle scuole. Un paese che ha un PIL che sfiora i 2000 miliardi all’anno non ha la possibilità di rivedere le sue priorità interne per trovare su più anni un millesimo di quella cifra senza scomodare il vertice continentale post-Brexit?
La politica italiana deve diventare più matura.
Limonov*
(la firma è uno pseudonimo. Limonov è un radicale russo antisistema, dell’epoca di transizione tra Urss e Putin. “Bisognerà restare liberi per raccontare quello che i membri del sistema non possono dire”. )